
È meglio dirselo subito: siamo in trappola. In trappola dopo tre anni in cui abbiamo perso una sola partita, abbiamo vinto l’Europeo, abbiamo rimontato diciassette posizioni nel ranking mondiale, arrivando quarti. Siamo nella trappola dei «se». Se vinciamo uno a zero, se la Svizzera ne rifila tre alla Bulgaria, se ci condanna la differenza reti o piuttosto il bilancio degli scontri diretti. C’è un solo modo per tirarci fuori dalla trappola dei se e strappare un passaporto per il Qatar: stravincere. Uscire stasera con una vagonata di gol da uno stadio, quello di Windsor Park, dove pure nessuna nazionale del girone ne ha ancora segnato uno. A Mancini è richiesto lo sforzo di Teseo: liberare la sua Arianna dal labirinto di Cnosso, sfuggire all’incubo del minotauro seguendo il filo della ragione e senza mai voltarsi indietro. Che vuol dire: capire che cosa c’è dietro al calo di rendimento e di risultati della Nazionale e porvi rimedio con coraggio.
La ragione suggerisce che l’Italia è diventata prevedibile. Perché mancano uomini decisivi, perché gli avversari hanno capito che facciamo un solo tipo di gioco e perché lo facciamo con minore velocità. Senza Spinazzola ci manca la capacità di affondo sulla fascia sinistra, senza Verratti ci manca un’alternativa a Jorginho nella costruzione della manovra. La Svizzera ha intuito che, marcando l’italo-brasiliano ci avrebbe tolto ossigeno vitale. Così è stato. Con un ordinato quattro-cinque-uno ci ha portato nel labirinto, e con un abile contropiede ci ha trafitto.
Il nostro palleggio è diventato un esitante ti…ki…ta… ka…, una parodia che sembrava costruita al Var. E il contropiede? Chi l’ha visto? Se l’Italia rinuncia a palleggiare veloce e a negarsi l’alternativa del contropiede, può cadere anche con l’Irlanda del Nord. Vuol dire che dobbiamo giocare di prima per impedire il raddoppio della marcatura e poi puntare l’avversario nell’uno contro uno, con uomini capaci di farlo. Vuol dire schierare Chiesa e Berardi insieme, non uno solo dei due. Vuol dire, ancora, pretendere che i mediani o gli esterni si alternino negli affondi sulle fasce. Bisogna far capire a Emerson e a Di Lorenzo che, talvolta, è meglio perdere palla nel dribbling piuttosto che passarla indietro per la trentacinquesima volta, dando a sé e agli avversari la sensazione della propria impotenza a pungere. Vuol dire, da ultimo, mettere Insigne nella condizione di giocare negli ultimi trenta metri, non a metà a campo. Chi lo ha studiato a fondo sa che la qualità delle sue prestazioni dipende dal punto in cui si posiziona a ricevere palla: più parte davanti, meno fatica ha sulle spalle e più chance di risultare creativo e decisivo.
Oltre alla ragione ci vuole il coraggio. L’altezza del rischio lo impone. Puntare a stravincere vuol dire mettere da parte i criteri di affidabilità ed esperienza, e osare. Dare una maglia a chi sta meglio. Non Belotti, solo perché centravanti di ruolo, se non ha la partita nelle gambe. Non Barella, se non è nella condizione di fare Barella. Non è un azzardo scommettere sulla freschezza atletica di Tonali, perché i suoi ventun anni sono quattro in più dei diciassette dello spagnolo Gavi, che ci ha battuto un mese fa.
Nessuno può dubitare del coraggio di Mancini. Se siamo qui, è merito della sua capacità di puntare su giovani ancora incompiuti e su outsider scartati, dalla Nazionale o dai club. Però le vittorie hanno un effetto conservativo e inducono a preservare l’equilibrio che le ha prodotte. Questa tentazione è stata, dopo il successo di Wembley, un perdonabile errore di calcolo. Poiché l’Italia che punta al Qatar, e con pieno diritto, non dovrà mai più smettere di evolvere. A partire da stasera, riprendiamoci la fiducia, l’azzardo, il carattere che ci ha portati sul trono d’Europa. Contro tutti i «se».
